Zootecnia e antispecismo

“Tutta la storia della zootecnia dimostra la lotta incessante fra soggiogati e allevatori. Si tratta di una lista potenzialmente interminabile di pratiche il cui vero denominatore comune è proprio la resistenza a cui rispondono: fruste, morsi, gioghi, operazioni chirurgiche, sterilizzazioni, selezione genetica, tecniche comportamentali, retoriche elaborate  per spezzare la solidarietà interspecifica …” M. Reggio, Leggere la resistenza, p. 25 in Animali in Rivolta, Mimesis Edizioni.

Nel 1855 si tenne a Parigi la seconda edizione della “Esposizione universale dei prodotti dell’agricoltura, dell’industria e delle belle arti”. Tra le varie innovazioni tecnologiche applicate all’industria venne presentato al pubblico un esempio di automazione delle operazioni di mungitura.

Siamo agli albori della diffusione della Zootecnia come scienza applicata dello sfruttamento degli animali a scopo di profitto. Nel 1849 viene istituita la prima cattedra universitaria di “tecniche dell’utilizzo animale”. Nel contesto di questo processo di istituzionalizzazione e di industrializzazione, troviamo un parallelo percorso di moralizzazione della zootecnia ad opera dei primi movimenti animalisti dell’epoca. Questi movimenti sorgevano secondo un’ottica protezionista e paternalista nei confronti degli animali ed erano socialmente connotati da una composizione alto borghese e occidentale. La promozione di una zootecnia progressista vedeva l’animale non utilizzato in quanto macchina, ma messo al lavoro in quanto servitore docile: “L’uomo deve impegnarsi nella conservazione degli animali […] coltivando la loro intelligenza e la loro sensibilità, sviluppando i loro istinti più favorevoli, temperando, le une con le altre, le loro qualità morali: la pazienza, il coraggio, l’ardore e la docilità; perché è attraverso queste stesse qualità che essi divengono per l’uomo il più prezioso dei suoi strumenti” (Raccolta dei Rapporti e delle Memorie della Società di protezione degli animali, Parigi 1848, pag. 5). Nel 1859 nel bollettino della stessa società animalista francese si scriveva in merito alla protezione e al governo degli animali che “La protezione comprende la domesticazione più generalizzata che possibile, l’educazione, l’acclimatazione, l’uso e l’impiego di ciascuno secondo le sue attitudini, la propagazione utile, e infine la distruzione particolare, quando necessaria all’armonia generale”. Un approfondimento di questa tematica è stato fatto da Benedetta Piazzesi in un workshop organizzato da “Oltre la specie”, da cui sono tratte queste citazioni.

https://www.youtube.com/watch?v=0er7Ko05m2Y

La storia del movimento animalista occidentale ha visto il passaggio da questa ottica protezionista ottocentesca a un approfondimento antispecista analitico che nel Novecento ha portato alla creazione del veganesimo (si veda ad esempio il testo fondamentale di P.Singer “Animal liberation”) e di un impianto non più paternalista ma etico rispetto agli altri animali, fondato in particolare sul rifiuto di consumo di prodotti animali, diretti o derivati. Solo più recentemente, sempre nel contesto di un movimento che pur evolvendosi è rimasto ampiamente minoritario, siamo arrivati all’antispecismo politico legato anche al concetto di intersezionalità rispetto alle altre oppressioni. Non di meno si può dire che sia la concezione paternalista che quella etica siano ancora pienamente presenti nella maggior parte dei movimenti animalisti, per cui abbiamo da un lato tutta una serie di gruppi e associazioni che fanno appello a una improbabile riduzione del danno nello sfruttamento animale (gli allevamenti biologici, la cosiddetta “carne felice”, etc.) e dall’altro lato abbiamo l’egemonia di un discorso antispecista incentrato sulla figura del consumatore etico, di chi non consuma prodotti animali. A me pare che la ricostruzione degli albori del movimento animalista metta in piena luce tutti i limiti di una caratterizzazione di tipo utopistico e borghese: mentre il protezionismo faceva i suoi primi timidi passi, contemporaneamente l’allevamento diventava una pratica industriale sempre più diffusa e centrale nel capitalismo, per cui si potrebbe anche dire che questo animalismo sia servito da ideologia giustificazionista di questo processo o perlomeno che non abbia fermato lo sterminio programmato degli animali.

Anche la pratica che enfatizza il ruolo etico di boicottaggio da parte del consumatore, seppure rappresenti quasi sempre il primo approccio per chiunque voglia iniziare un percorso animalista e antispecista concreto, mi pare insufficiente. Mentre controlliamo in quanto vegan la nostra dieta quotidiana, nei mattatoi e negli allevamenti milioni di animali non umani vengono lo stesso sfruttati, torturati e poi uccisi, con il dispiegamento incalcolabile di una sofferenza terribile. Secondo Sarat Colling, «entrambi, i polli e gli esseri umani, sono oppressi dal sistema capitalistico in cui le merci sono la prima forma di comprensione del mondo. Non andiamo oltre l’oggetto che abbiamo di fronte per considerare i mezzi di produzione, perché le nostre menti e i nostri corpi sono stati «colonizzati» – cosa che non riusciamo a riconoscere»

https://operavivamagazine.org/lo-sguardo-neutrale-non-esiste

kigen