Monthly Archives: May 2020

“Adottare una mucca” ovvero l’ultima frontiera della Bio-violenza

Leggiamo da un articolo apparso sul quotidiano online “Il Post” come sia possibile “adottare una mucca” aiutando le piccole aziende agricole nella incalzante crisi economica, ovviamente “per mangiare cose più buone” (che sarebbero sempre degli individui animali) o soltanto per aumentare in qualche modo il “benessere animale” nel contesto della produzione biologica e degli allevamenti sostenibili.

“Lo scorso 10 aprile, a circa un mese dalla chiusura delle attività per l’emergenza coronavirus, una piccola cooperativa di allevatori con sede a San Pietro di Cadore, vicino a Cortina, ha deciso di dare in adozione le sue quaranta mucche. L’idea non era liberarsene, ma continuare ad allevarle nelle proprie stalle chiedendo un contributo economico a tutti coloro che avessero voluto partecipare e offrendo in cambio una selezione di prodotti della loro latteria […] A ricorrere al modello delle adozioni a distanza sono soprattutto le aziende agricole e le fattorie più piccole, con sistemi di coltivazione biologici e allevamenti non intensivi, che producono meno facendo più attenzione ai processi e alla qualità. I costi di queste piccole imprese sono altissimi rispetto al loro profitto e in questi mesi di emergenza sanitaria le difficoltà sono ancora più del solito”

Ci troviamo di fronte ad un nuovo modello nell’ambito dello sfruttamento animale, con la partecipazione attiva dei consumatori al lavoro di piccole imprese che non volevano, nel corso di una crisi di sovrapproduzione, “liberarsi” degli animali (il verbo riflessivo usato nell’articolo de Il Post lascia intendere che li avrebbero uccisi e non liberati, come sta infatti avvenendo in altri posti del mondo in questo periodo, come spesso documentiamo su questo blog). Questo nuovo appello pare stia riscuotendo un discreto successo, per via dell’efficacia che in generale risultano avere queste campagne pubblicitarie degli allevamenti non intensivi, con tutta la loro retorica del benessere animale, della carne felice etc. Si potrebbe anche dire che sono un altro aspetto del complessivo sistema di sussidi che mantiene in attivo un’industria in perenne crisi come quella lattero-casearia: se non con i fondi provenienti dalla fiscalità generale (e quindi in una certa qual misura anche “nostri”, pure di chi si oppone allo sfruttamento animale) adesso si fa appello ad una partecipazione diretta dei consumatori, che sembra si mostrino subito interessati a cibarsi in maniera responsabile di altri individui animali in un contesto che gli lava anche un poco la coscienza. Meno inquinamento, meno antibiotici, meno sofferenza e così via.

A questo riguardo è interessante allora rivedere il concetto di Bio-Violenza per come è stato analizzato dall’attivismo antispecista nel corso degli anni, in particolare rispetto agli allevamenti estensivi-bio:

Esistono una serie di sistemi di produzione di carne e derivati che potremmo chiamare, per comodità, “allevamenti non intensivi”. Rientrano in questo calderone tipologie anche piuttosto diverse: grandi allevamenti con spazi maggiori degli intensivi, pascolo, ecc.; produzioni biologiche certificate; piccoli allevamenti a conduzione familiare; e altri ancora. Ciò che le differenzia dall’intensivo è talvolta un più alto standard di salubrità o qualità della carne (meno antibiotici, meno ormoni, meno farmaci in generale, miglior foraggio), talvolta una maggior attenzione al benessere animale, talvolta una particolare attenzione all’impatto ambientale, più spesso la compresenza di questi elementi. In generale, però, tali produzioni sono percepite come pratiche che implicano una certa considerazione del benessere animale e una generica sostenibilità (termine che evoca in modo spesso confuso tutti gli aspetti menzionati sopra).
Secondo noi, la diffusione – e, soprattutto, la sovraesposizione discorsiva – di queste tipologie di allevamenti costituisce una risposta dell’industria della carne all’indignazione pubblica, o anche solo alla possibilità che la gente sviluppi dei “problemi di coscienza”. Nessun complotto, sia chiaro: anche se in alcuni casi i big del settore creano a tavolino progetti di propaganda dell’allevamento “buono”, in linea di massima la retorica dell’allevamento sostenibile fa presa in modo spontaneo. In realtà, solo raramente l’insistenza sull’immagine della fattoria biologica o sul recupero delle “tradizioni contadine” spinge davvero a consumare prodotti provenienti da tali ambiti: perlopiù incoraggia il consumatore a proseguire a cuor leggero nell’acquisto dei “classici” articoli del supermercato. La retorica della “sostenibilità”, in sostanza, legittima gli allevamenti intensivi: “consumatore, puoi stare tranquillo e continuare a comprare, perché, vedi, esistono molti luoghi in cui gli animali vengono trattati bene”.
Ma gli animali sono “trattati bene”, negli allevamenti non intensivi? È difficile generalizzare, data l’eterogeneità del fenomeno. Tuttavia, occorre ricordare un fatto banale: gli animali “da reddito” vengono, presto o tardi, mandati al macello. Possono vivere in gabbie più larghe, più a lungo, talvolta possono interagire con i loro simili, ma è al mattatoio che sono destinati. E – dato che in ogni caso costituiscono una fonte di profitto – non vi arriveranno certo “nella vecchiaia”, come spesso ci danno ad intendere i supporter dell’allevamento sostenibile. Alcune di queste migliorie possono certo essere significative per i singoli animali, nel senso che, pur nella schiavitù, possono significare concretamente una vita un po’ più sopportabile, ma si tratta in fondo di diversi gradi di sfruttamento. Spesso poi queste migliorie restano sulla carta, come nel caso degli allevamenti “a terra”, in cui troviamo le gabbie a terra o migliaia di polli o tacchini ammassati in capannoni privi di luce naturale. In altri casi, allevamento “non intensivo” significa “non industrializzato”, “non meccanizzato”, o semplicemente “di piccole dimensioni”. La mancanza di tecnologie di gestione dei corpi tecnologicamente avanzate e standardizzate non implica però necessariamente che non si manifesti la violenza umana: anzi, spesso riemergono le forme di violenze tipiche della tanto decantata “vecchia fattoria”, in cui il rapporto diretto fra allevatore e allevato, descritto come idilliaco dai produttori di carne, significava catene, percosse, incuria. Senza contare che esiste un intero settore, quello degli animali marini, in cui di benessere praticamente non si parla, poiché l’opinione pubblica non è sensibile alla sofferenza dei pesci. In questo settore si parla perlopiù di attenzione allo spreco (cioè a non esaurire le “risorse”), all’inquinamento o alla biodiversità. Questa precisazione rivela un punto interessante: le misure per il benessere animale non sono mai davvero un obiettivo in sè e per sè, ma costituiscono una sorta di effetto collaterale dei veri obiettivi delle proposte di migliorie legislative, che sono l’ottimizzazione della produzione, la tutela di specifici prodotti “di qualità”, la salute del consumatore umano, e così via. In sintesi, dunque, gli allevamenti “estensivi” sono soltanto l’altra faccia di quelli intensivi.
 
 
Resterebbe molto altro da aggiungere, concludiamo solo considerando che se si ha la voglia di “adottare” un animale, ci si può benissimo rivolgere a uno dei tanti rifugi e santuari per animali liberi presenti sul territorio, che in questo periodo vivono anche loro un momento di difficoltà economica.

 

DAIRY = DEATH

La scritta “DAIRY = DEATH” [per dairy qui si intende la produzione lattero-casearia, mentre death ovviamente significa “morte”] è apparsa sulla vetrina di un negozio di formaggi a Brighton, nel Regno Unito. Una rivendicazione del gesto è stata inviata al sito Unoffensive Animal

“Il 5 maggio ci siamo copertx il ​​viso, abbiamo preso una bomboletta spray e ci siamo direttx a Brighton. Siamo statx ispiratx da altre azioni di questo tipo che abbiamo visto fare nella nostra zona. Siamo stufx di vedere negozi “rispettosi del benessere animale” vendere prodotti di origine animale. Pensano che ciò sia un atto innocente, ma sappiamo che stanno ancora utilizzando e abusando di animali: “ruspante” e “alto benessere” sono solo etichette utilizzate in modo che gli esseri umani possano sentirsi meglio riguardo all’abuso.

I media locali hanno raccontato l’azione e pubblicato una storia unilaterale su come la proprietaria del negozio sia molto arrabbiata. Speriamo che lei e i suoi clienti pensino a cosa stanno vendendo e per cosa stanno pagando, e non ci dispiace che questo negozio possa cadere in difficoltà finanziarie.

Siamo rimastx molto delusx nel vedere come nelle reazioni sui media moltx veganx non supportino l’azione e affermino che questa danneggi il “movimento vegano”. A loro diciamo: noi siamo il movimento di liberazione animale. Non stiamo lottando per avere più opzioni vegane e per l’accettazione nella società. Stiamo combattendo per la liberazione”.

La fine della carne è qui

da https://www.nytimes.com/2020/05/21/opinion/coronavirus-meat-vegetarianism.html?action=click&module=Opinion&pgtype=Homepage#commentsContainer

di Jonathan Safran Foer

Se ti preoccupi dei lavoratori poveri, della giustizia razziale e dei cambiamenti climatici, devi smettere di mangiare animali.

Quale panico è più primitivo di quello provocato dal pensiero degli scaffali vuoti del negozio di alimentari? Quale sollievo è più primitivo di quello offerto dal comfort food?
Quasi tutti hanno cucinato di più in questi giorni,
c’è stata più documentazione sulla cucina e più pensieri sul cibo in generale. La combinazione tra la carenza di carne e la decisione del presidente Trump di ordinare l’apertura dei macelli nonostante le proteste dei lavoratori contagiati ha ispirato molti americani a considerare quanto sia essenziale la carne.

È più essenziale della vita dei lavoratori poveri che lavorano per produrla? Sembra così. Un sorprendente dato di sei contee su 10 che la stessa Casa Bianca ha identificato come punti caldi del coronavirus ospitano gli stessi macelli che il presidente ha ordinato di riaprire.
Sioux Falls, S.D.,
l’impianto di produzione di carne di maiale Smithfield, che produce circa il 5% della carne di maiale del paese, è uno dei maggiori punti caldi della nazione. Uno stabilimento Tyson a Perry, nello Iowa, aveva 730 casi di coronavirus, quasi il 60 percento dei suoi dipendenti. In un altro impianto di Tyson, a Waterloo, nello Iowa, sono stati segnalati 1.031 casi tra circa 2.800 lavoratori.

I lavoratori malati significano l’arresto degli impianti, che ha portato ad avere un surplus di animali sul mercato. Alcuni agricoltori stanno facendo iniezioni alle scrofe in gravidanza per causare degli aborti. Altri sono costretti a praticare l’eutanasia ai loro animali, spesso gasandoli o sparandogli. La situazione è diventata così grave che il senatore Chuck Grassley, repubblicano dello Iowa, ha chiesto all’amministrazione Trump di fornire risorse per il sostegno alla salute mentale degli allevatori di maiali.

Nonostante questa terribile realtà – e gli effetti ampiamente segnalati dell’industria agricola sulle terre, le comunità, gli animali e la salute umana dell’America molto prima dell’esplosione della pandemia – solo circa la metà degli americani afferma che sta cercando di ridurre il suo consumo di carne. La carne è inserita nella nostra cultura e nelle nostre storie personali in modi che contano troppo, dal tacchino del giorno del Ringraziamento all’hot dog del campo di baseball. La carne ha odori e sapori straordinariamente meravigliosi, con soddisfazioni che possono quasi farci sentire come a casa stessa. E cosa, se non la sensazione di essere a casa, è essenziale?

Eppure, un numero crescente di persone percepisce l’inevitabilità del cambiamento imminente.
L’agricoltura animale è ora riconosciuta come una delle principali cause del riscaldamento globale. Secondo The Economist, un quarto degli americani tra i 25 e i 34 anni afferma di essere vegetariano o vegano, il che forse è uno dei motivi per cui le vendite di “carni” a base vegetale sono salite alle stelle, con Impossible e Beyond Burgers disponibili ovunque da Whole Foods a
White Castle.

La nostra mano ha raggiunto la maniglia della porta negli ultimi anni. Covid-19 ha aperto la porta a calci.
Per lo meno ci ha costretto a guardare. Quando si tratta di un argomento scomodo come la carne, si è tentati di pretendere che la scienza sia un aiuto incontrovertibile, per trovare conforto in eccezioni che non potrebbero mai essere ridimensionate e parlare del nostro mondo come se fosse una cosa teorica.

Alcune delle persone più premurose che conosco trovano il modo di non dare alcun pensiero ai problemi dell’agricoltura animale, così come troviamo il modo di evitare di pensare ai cambiamenti climatici e alla disparità di reddito, per non parlare dei paradossi nella nostra vita alimentare. Uno degli effetti collaterali inattesi di questi mesi di lockdown è che è difficile non pensare alle cose essenziali.
Non possiamo proteggere il nostro ambiente mentre continuiamo a mangiare carne regolarmente. Questa non è una prospettiva confutabile, ma una banale verità. Che si trasformino in Whopper o in bistecche, le mucche producono un’enorme quantità di gas serra. Se le mucche fossero un paese, sarebbero il terzo più grande emettitore di gas serra al mondo.

Secondo il direttore della ricerca di Project Drawdown – un’organizzazione no profit dedicata a modellare le soluzioni per affrontare i cambiamenti climatici – mangiare con una dieta a base vegetale è “il contributo più importante che ogni individuo può dare per invertire il riscaldamento globale”.

Gli americani accettano in modo schiacciante la scienza del cambiamento climatico. La maggioranza dei repubblicani e dei democratici afferma che gli Stati Uniti avrebbero dovuto rimanere nell’accordo sul clima di Parigi. Non abbiamo bisogno di nuove informazioni e non abbiamo bisogno di nuovi valori. Dobbiamo solo attraversare la porta aperta.


Non possiamo pretendere di preoccuparci del trattamento umano degli animali mentre continuiamo a mangiare carne regolarmente. Il sistema agricolo su cui facciamo affidamento è intriso di miseria. I polli moderni sono stati così geneticamente modificati che i loro stessi corpi sono diventati prigioni del dolore anche se apriamo le loro gabbie. I tacchini sono allevati per essere così obesi che non sono in grado di riprodursi senza inseminazione artificiale. Alle mucche madri vengono strappati i vitelli prima dello svezzamento, provocando un’angoscia acuta che possiamo sentire nei loro lamenti e misurare empiricamente attraverso il cortisolo nei loro corpi.

Nessuna etichetta o certificazione può evitare questo tipo di crudeltà. Non abbiamo bisogno di attivisti per i diritti degli animali che ci agitino un dito. Non abbiamo bisogno di essere convinti di tutto ciò che sappiamo già. Dobbiamo ascoltare noi stessi.
Non possiamo proteggerci dalle pandemie continuando a mangiare carne regolarmente. Molta attenzione è stata prestata ai mercati umidi, ma gli allevamenti industriali, in particolare gli allevamenti di pollame, sono un terreno fertile più importante per le pandemie. Inoltre, il C.D.C. riferisce che tre delle quattro malattie infettive nuove o emergenti sono zoonotiche – il risultato della nostra relazione interrotta con gli animali.
Inutile dire che vogliamo essere al sicuro. Sappiamo come renderci più sicuri. Ma volere e conoscere non bastano.

Queste non sono le mie opinioni o quelle di chiunque, nonostante la tendenza a pubblicare queste informazioni nelle sezioni di opinione. E le risposte alle domande più comuni sollevate da qualsiasi serio interrogatorio sull’agricoltura animale non sono opinioni.

Abbiamo bisogno delle proteine ​​animali? No.
Possiamo vivere vite più lunghe e più sane senza di esse. La maggior parte degli adulti americani consuma circa il doppio dell’assunzione raccomandata di proteine, compresi i vegetariani, che consumano il 70 percento in più del necessario. Le persone che mangiano diete ricche di proteine ​​animali hanno maggiori probabilità di morire di malattie cardiache, diabete e insufficienza renale. Certo, la carne, come la torta, può far parte di una dieta sana. Ma nessun nutrizionista sano consiglierebbe di mangiare la torta troppo spesso.

Se lasciamo crollare il sistema delle fabbriche agricole, non soffriranno gli agricoltori? No.
Lo faranno le corporations che parlano nel loro nome mentre li sfruttano. Oggi ci sono meno agricoltori americani di quanti ce ne fossero durante la guerra civile, nonostante la popolazione americana sia quasi 11 volte maggiore. Questo non è un fattore incidentale, ma un modello di business. Il sogno finale del complesso industriale dell’agricoltura animale è che le “aziende agricole” siano completamente automatizzate. La transizione verso alimenti a base vegetale e pratiche agricole sostenibili creerebbe molti più posti di lavoro di quanti ne eliminerebbe.
Non credetemi sulla parola. Chiedete a un agricoltore se sarebbe felice di vedere la fine dell’agricoltura industriale.

È un discorso elitario? No.
Uno studio del 2015 ha rilevato che una dieta vegetariana costa $ 750 all’anno in meno rispetto a una dieta a base di carne. Le persone di colore si auto-identificano in modo sproporzionato come vegetariane e sono sproporzionatamente vittime della brutalità dell’agricoltura industriale. I dipendenti del mattatoio attualmente messi a rischio per soddisfare il nostro gusto per la carne sono in gran parte neri e latini. Suggerire che un modo di coltivare più economico, più sano e meno sfruttatore sia elitario è in realtà un modo di fare propaganda industriale.

Possiamo lavorare con le aziende agricole per migliorare il sistema alimentare? No.
Bene, a meno che non crediate che quelli resi potenti attraverso lo sfruttamento distruggeranno volontariamente i mezzi che hanno concesso loro una ricchezza spettacolare. L’agricoltura industriale è per l’agricoltura reale ciò che i monopoli criminali sono per l’imprenditorialità. Se per un solo anno il governo avesse rimosso i suoi oltre 38 miliardi di dollari in sussidi e salvataggi, e avesse richiesto alle corporations di carne e latte di competere secondo le normali regole capitaliste, li avrebbe distrutti per sempre. L’industria agroalimentare non potrebbe sopravvivere nel libero mercato.
Forse più di ogni altro cibo, la carne ispira sia comfort che disagio. Ciò può rendere difficile agire su ciò che sappiamo e desideriamo. Possiamo davvero togliere la carne dal centro dei nostri piatti? Questa è la domanda che ci porta alla soglia dell’impossibile. Dall’altro lato è l’inevitabile.

Con l’orrore della pandemia che preme e le nuove domande su ciò che è essenziale, ora possiamo vedere la porta che era sempre lì. Come in un sogno in cui le nostre case hanno stanze sconosciute al nostro risveglio, possiamo percepire che esiste un modo migliore di mangiare, una vita più vicina ai nostri valori. Dall’altro lato non è qualcosa di nuovo, ma qualcosa che ci chiama dal passato – un mondo in cui i contadini non erano degli esseri mitologici, i corpi torturati non erano cibo e il pianeta non era il conto alla fine del pasto.
Un pasto dopo l’altro, è tempo di varcare la soglia. Dall’altro lato c’è casa.

Mille galline salvate dal massacro in un allevamento intensivo in Iowa

da https://sentientmedia.org/1000-hens-rescued-from-iowa-egg-farm-struggling-under-covid-19/

L’allevamento di galline da uova progettava di “depopolare” più di 100.000 galline, così i soccorritori hanno noleggiato due aerei per trasportare un gruppo di galline dall’azienda dello Iowa a un rifugio presso Grass Valley, in California.

GRASS VALLEY, California – Nel fine settimana, Animal Place, il rifugio più antico e più grande della California per gli animali d’allevamento, ha salvato 1.000 galline da una fattoria di uova nello Iowa, in crisi a causa della pandemia di COVID-19.

L’allevamento di uova, che ha chiesto di non essere identificato, aveva pianificato di uccidere più di 100.000 galline con il gas. La pratica, chiamata “depopolare”, è un metodo sempre più comune usato dagli agricoltori in difficoltà che non hanno un posto dove mandare i loro animali, poiché i lavoratori contagiati dal virus, le chiusure di macelli e le catene di approvvigionamento interrotte stanno causando il caos nel sistema alimentare americano.

Prima di “depopolare” il suo allevamento, la fattoria ha preso una decisione insolita consentendo alle persone di prendere le galline sulla loro proprietà e quindi i sostenitori locali dei diritti animali hanno allertato Animal Place, un’associazione specializzata in salvataggi su larga scala. Due membri dello staff di Animal Place hanno quindi guidato per circa 30 ore dalla California allo Iowa per coordinare il salvataggio con otto volontari locali.

Le condizioni di vita all’interno della struttura per la produzione di uova erano davvero tristi. I soccorritori hanno trovato un sistema di gabbie a batteria con gabbie impilate in verticale da quattro a cinque e con 10 galline in ogni gabbia. Hanno anche trovato gabbie con galline sopravvissute costrette a stare in piedi e camminare sopra le galline defunte. Le galline morte disseminavano le navate laterali del fienile.

Con la riduzione dei fondi, gli agricoltori non avevano nutrito bene le loro galline per una settimana prima del salvataggio. I soccorritori hanno riferito a Sentient Media che tutte le galline che sono troppo malate per essere adottate rimarranno nel santuario e riceveranno cure a vita.

Sabato, le galline sono volate da Fort Dodge in Iowa fino a Truckee in California, a circa un’ora dal santuario di Grass Place di Animal Place, dove le galline saranno curate, rimesse in salute e poi adottate nei giardini privati in tutta la California.

“L’intero processo, a partire dalle 27 ore di auto, arrivare alla fattoria alle 3 del mattino, caricare e scaricare casse complete da aerei e veicoli, e andare direttamente a prendersi cura di loro una volta arrivati ​​al santuario è stata l’esperienza più estenuante che io abbia mai avuto “, ha detto la responsabile di Animal Place per la cura degli animali Hannah Beins.

“Data la distanza e la logistica, il nostro personale e i nostri sostenitori hanno dovuto intensificare gli sforzi ancora di più del solito”, ha dichiarato il direttore esecutivo di Animal Place Kim Sturla. “Sfortunatamente nemmeno noi possiamo accogliere 100.000 galline, il che è una goccia nel mare delle centinaia di milioni di galline uccise ogni anno dall’industria delle uova, anche in un anno tipico senza una pandemia globale.”

Anche se hanno molti anni di vita davanti a loro, una volta che la loro produzione rallenta, a 12-18 mesi, le galline ovaiole vengono in genere uccise e sostituite con nuove. Circa il 95 percento delle galline negli Stati Uniti sono alloggiate in gabbie a batteria, che offrono loro meno spazio di un normale foglio di carta, incapaci di allungare le ali. Nelle fattorie industriali, le galline sono allevate per una produzione di uova insolitamente elevata, che esaurisce il loro calcio e provoca osteoporosi e ossa fratturate. Strette all’interno delle gabbie della batteria, questi sintomi si intensificano. “Chiunque abbia studiato attentamente la vita sociale degli uccelli saprà che il loro è un mondo sottile e complesso, in cui cibo e acqua sono solo una piccola parte dei loro bisogni comportamentali”, ha affermato il dott. Desmond Morris, uno zoologo e specialista in comportamento animale.

“Lo farei di nuovo in un batter d’occhio, perché fino al loro salvataggio queste galline non hanno mai toccato l’erba o sentito il sole, e ora possono vivere il resto della loro vita come dovrebbero fare tutte le galline”, ha detto Beins.

Per celebrare le 1.000 vite salvate, Animal Place sta servendo 1.000 pranzi vegani ai lavoratori agricoli locali e alle loro famiglie.

 

Astrologia, mitologia, animali e mostri

Durante la nona puntata di la mucca libera abbiamo ascoltato un contributo di Astri amari, una astrologa antispecista che ci ha parlato del rapporto tra astrologia, mitologia e animali umani e non. La cultura antopocentrica ha spezzato sin dall’inizio quello che era un rapporto “sano” tra animali e ha costruito un sistema di oppressione fondato sul binarismo e sulla contrapposizione tra umano e animale, costituendo così le fondamenta della separazione tra specie tramite una progressiva soggettivazione escludente. Nella genealogia dell’astrologia troviamo invece un rapporto diverso tra figure umane e animali, così come emerge anche la figura del mostro, che è essenzialmente un misto, in particolare, appunto, un misto tra specie diverse: anche per questo la mostruosità oggi può essere vista come la nostalgia di un passato (e magari anche di un futuro) in cui non esistono le barriere tra diversi animali, umani o di qualsiasi altra tipologia.

Questo il contributo di Astri amari:

Dieci anni di zootecnia in Italia

Il report DIECI ANNI DI ZOOTECNIA IN ITALIA elaborato dall’associazione “Essere Animali” presenta numerosi dati molto interessanti sull’evoluzione dello sfruttamento animale nel nostro paese.

Partiamo dal primo dato che emerge dal report: dopo gli ultimi dieci anni nel nostro paese si mangia meno carne, ma si macellano più animali, come riporta anche il titolo di un’analisi del report di Essere Animali fatta dal sito internet Vegolosi. Il consumo di carne è calato nel complesso del 7% e si è spostato prevalentemente dal consumo di “carni rosse” a quello di “carni bianche” e di pesce. Il numero dei pesci macellati, in particolare, è cresciuto di ben 50 milioni, spiegando così il gap paradossale che emerge tra riduzione del consumo e aumento della macellazione. In sostanza, pare che le campagne di informazione medica sui rischi per la salute umana provenienti dalle carni rosse abbiano spostato una fetta di mercato verso il consumo di polli e pesci: qui la percezione del rischio resta comunque distorta, perché si sottovaluta fortemente il danno provocato alla salute dei “consumatori” degli animali allevati con antibiotici.

Il settore industriale della produzione del latte ha conosciuto negli ultimi dieci anni una forte ristrutturazione, che tra l’altro ha potuto evitare una crisi verticale solo attraverso quel sistema di sussidi che lo tiene forzosamente in piedi nonostante gli eventuali cali di profitto. In Italia si consuma meno latte, ma restano stabili e molto richiesti i formaggi (di cui non si percepiscono evidentemente né i rischi per la salute né tanto meno gli effetti devastanti sulla vita degli altri animali). Inoltre, si macellano meno agnelli per il consumo di carne, che è sceso del 30%, mentre è aumentato del 28% il numero degli ovini destinati all’allevamento da latte.

Altro dato di rilievo che emerge dall’indagine: “In questi anni, il numero delle mucche allevate
sul territorio italiano per la produzione di latte è rimasto pressoché invariato con un calo di
100.000 esemplari (-4%). Cambia però la modalità di gestione: dal 2010 è scomparso il 32%
degli allevamenti ed è aumentato il numero di animali per ogni struttura, a testimoniare la
crescita del modello intensivo come sistema di allevamento”. Anche per i maiali abbiamo un significativo aumento dello sfruttamento intensivo negli allevamenti industriali, sia per quanto riguarda la concentrazione in pochi allevamenti sempre più grandi, sia per come i maiali vengono cresciuti, facendoli ingrassare oltre i 110 kg.

Un dato in controtendenza riguarda infine i cavalli e gli agnelli, il cui consumo di carne si è ridotto decisamente negli ultimi dieci anni: per gli italiani questi due animali sembrano essere ormai sempre più percepiti come animali di affezione, possibili animali domestici, per cui li si vede molto più come pet che come “carne”.

Vegolosi conclude l’analisi del report con questa breve riflessione: “I dati sono solo parzialmente incoraggianti, e sono il frutto di una normale preoccupazione dei consumatori verso la propria salute e solo parzialmente per quella delle condizioni degli animali, se non per alcune ristrette categorie come conigli e cavalli con le quali è più semplice un immediato riscontro empatico (così come per gli agnelli, anche se non è mai chiaro, che il latte di pecora, ancora fortemente prodotto per consumo diretto o per la realizzazione di formaggi, viene prodotto solo se le pecore hanno cuccioli, ossia agnelli che se non dirottati nuovamente alla filiera del latte, verranno macellati e esportati)”.

Le statistiche mostrano dunque una situazione solo apparentemente contraddittoria, ma che in fondo pare segnare una profonda ristrutturazione del consumo di prodotti alimentari derivati da animali. Lungi da rappresentare un passo in avanti in un auspicabile, se pur graduale, cammino di liberazione animale, i numeri dimostrano piuttosto una ridefinizione articolata delle forme di sfruttamento messe in pratica dall’industria della carne, con il tentativo di rendere compatibili nel sistema di oppressione specista anche alcune pratiche discorsive della cultura animalista, dei diritti e del benessere animale.

Support Agripunk! Adopt Agripunk!

Condividiamo l’aggiornamento della campagna Support Agripunk! Adopt Agripunk!

Ciao! E niente, finita la causa per lo sfratto è iniziato il lockdown per il Covid-19 🙁
Abbiamo concentrato le nostre energie e risorse per mantenere le belve e non fargli mancare nulla durante questo fermo sia del volontariato che delle attività ed eventi di autofinanziamento.
Per fortuna per questi 3 mesi (febbraio, marzo e aprile) ci ha aiutato moltissimo la redazione di Liberazioni, rivista di critica antispecista ma per i prossimi mesi abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti voi!
Noi siamo sempre qui, siateci vicinx!

DONAZIONI

 

 

 

Manifesto Queer Vegan

Durante la puntata di lunedì 4 maggio abbiamo parlato di un testo molto importante nella storia del movimento antispecista, ovvero Manifesto queer vegan di Rasmus Rahbek Simonsen (edizione italiana di Ortica, 2014). È un testo breve, semplice ma complesso per la filosofia sottesa. In questo manifesto si propone una visione in divenire del veganismo e si auspicano comportamenti instabili e devianti dei singoli contro ogni posizione rigidamente binaristica (di genere, di orientamento sessuale, etc.). Il veganismo queer secondo le idee di Simonsen non è interessato a ricostruire nuove categorie, anzi interroga il concetto stesso di veganismo quando esso supporta e preserva il mangiare-carne in un medesimo sistema discorsivo di differenza. In questo senso il veganismo non è letto come uno stile di vita ma come una “irrinunciabile presa di posizione politica da parte di chi anticipa, qui e ora, la liberazione”. Nel testo si parte dunque da una domanda fondamentale: che cosa significa per una persona dichiarare il suo veganismo al mondo? Abbiamo rivolto questa domanda a una attivista antispecista e transfemminista:

Abbiamo posto anche un’ultima breve domanda riguardo la differenza tra il queer e il vegan nella radicalità dell’affrontare il sistema capitalista ed eteronormativo: l’antispecismo come potrebbe colmare questo gap esistente?

 

 

Comunicato del gruppo di supporto agli/le antispecistx prigionierx:

da https://quaglia.noblogs.org/post/2020/05/01/lamore-non-e-un-crimine-notizie-sulla-repressione/

Lo scorso ottobre, mentre il tribunale federale richiedeva l’uscita immediata del prigioniero antispecista Matthias, incarcerato dal 1 dicembre 2018 a Champ Dollon (cantone di Ginevra, Svizzera) sulla base di semplici sospetti su atti di sabotaggio di istituzioni speciste, alcune persone vicine al militante si erano recate davanti alla prigione di detenzione provvisoria per attendere la sua uscita imminente. I/le 5 amicx presenti avevano preparato per la liberazione del loro compagno uno striscione su cui si leggeva “Matthias ti vogliamo bene”. Dopo più di 11 mesi ad aspettare la sua uscita e dopo molteplici ricorsi al prolungamento della sua ingiusta detenzione, la loro gioia e sollievo stava infine per trovare un riconoscimento.

Ma quella che doveva essere un’uscita felice non lo fu. Nel momento in cui veniva scattata una foto ricordo del loro striscione per qualche secondo per mostrarla alle persone più vicine, arrivò un furgone della polizia e i poliziotti ordinarono ai/le solidali di mostrare i documenti di identità, con il pretesto di una “manifestazione non autorizzata”. Confiscarono freddamente lo striscione e ordinarono loro di “circolare”.

Matthias uscì il giorno successivo e questo incidente vergognoso fu presto dimenticato per la gioia del ritrovarsi. Tuttavia, lunedì 24 febbraio 2020 i/le 5 amicx hanno avuto la cattiva sorpresa di ricevere una multa di 750 franchi ciascunx, con l’accusa di diverse infrazioni come aver fatto eccessivo rumore.

Ovviamente loro contestano i fatti in maniera assoluta, non avendo parlato a un volume più alto del normale, né diffuso della musica o scandito degli slogan. Hanno semplicemente fotografato il loro striscione per 20 secondi prima di metterlo via di nuovo.

Denunciamo la repressione che subiscono gli/le attivistx antispecistx come anche quellx di tutte le altre lotte politiche. Tentare di intimidire le persone vicine e che sostengono i/le prigionierx politicx non funzionerà, siamo solidali e indignatx dai tentativi delle autorità di sabotare questi atti d’amore, per fare meglio sprofondare le persone che lottano quotidianamente contro le ingiustizie. Siamo più forti di questo tentativo di metterci il bavaglio!

I/le 5 amicx di Matthias hanno fatto ricorso contro la loro ordinanza penale e sono già rappresentatx da degli avvocati.

Promemoria dei fatti sull’incarcerazione di Matthias:

Il 1 dicembre 2018, Matthias e un’altra attivista sono inviatx al carcere di Champ-Dollon, sospettatx di danneggiamenti materiali nei confronti di ristoranti, macellerie, manifesti specisti come anche di un mattatoio. La seconda attivista sarà rilasciata dopo una settimana di detenzione. Matthias vi resterà rinchiuso per più di undici mesi. Mirabelle, una terza attivista, vi resterà anch’essa rinchiusa un mese prima di venire rilasciata.

Il 6 novembre 2019, Matthias, Mirabelle e un altro attivista sono statx processatx dal tribunale penale di Ginevra. Il tribunale ha riconosciuto che la polizia aveva ottenuto delle prove illegali, lx ha assoltx sulla metà delle accuse, ma ha comunque emesso delle condanne pesanti. Tuttx loro hanno fatto appello alle loro condanne illegittime. La data del processo di appello di fronte alla Corte di Giustizia di Ginevra non è ancora stata fissata.

L’antispecismo è una lotta politica allo stesso modo del femminismo, del riconoscimento dei diritti per le persone LGBTIQ+ e dell’antirazzismo. Essa sostiene la necessità di dare la voce ai 77,5 milioni di animali uccisi ogni anno in Svizzera, ai 60 miliardi uccisi nel mondo e ai 1.000 miliardi di animali marini che subiscono le conseguenze della pesca. Il diritto alla vita e al rispetto degli interessi fondamentali di questi individui deve prevalere sul mantenimento di un sistema economico, di una tradizione o di un piacere gustativo. L’attivismo antispecista apre dunque a diversi mezzi, legali e dissidenti, per ottenere un cambiamento di sistema necessario alla sopravvivenza di esseri sensibili in un contesto di emergenza ecologica.

Articoli connessi a questo caso repressivo:

https://www.letemps.ch/ [1]
https://www.20min.ch/
https://www.letemps.ch/ [2]

Per contatti con il gruppo di supporto:

soutienauxactivistes@protonmail.com
https://www.facebook.com/pg/solidariteavecnotrecamaradeantispeciste/